Le nozze ed il lutto di Vittoria Colonna sul Castello Aragonese

Pallida e sognante, sul Castello Aragonese si aggira una figura dai lunghi capelli raccolti, cammina pensosa tra gli ulivi e le stradine di pietra. E’ giovane, è vedova, è triste:è Vittoria Colonna, la poetessa del Castello. E’ il Rinascimento e tutto ciò che questo periodo significa per la cultura e le arti giunge ad Ischia, grazie a questa nobile donna ed alla sua tensione spirituale.Tra preghiere e rime, Vittoria Colonna trascorre quasi un trentennio su quel Castello Aragonese che doveva diventare la tua torre eburnea e fonte di ispirazione per la sua poesia

“Un uomo, una donna, anzi un Dio” così la definì Michelangelo, che fu legato a Vittoria Colonna da un profondo legame spirituale. E su questa amicizia platonica sono state ricamate molte storie, non vere, ma che contribuiscono ad avvolgere Vittoria e Michelangelo di una patina mitico- leggendaria.

Il racconto più romanticheggiante è sicuramente quello che vuole Michelangelo dimorare nella Torre di Guevara che si trova a Cartaromana, dunque sul promontorio di fronte al Castello Aragonese. Questa Torre che per molti anni è stata popolarmente nota come torre di Michelangelo, secondo la leggenda aveva una tunnel sotterraneo che collegava con il Castello. Percorrendo questo passaggio sottomarino Michelangelo avrebbe raggiunto nottetempo Vittoria Colonna, per congiungersi con lei.

Nella realtà Michelangelo non è mai venuto ad Ischia e soprattutto la sua omosessualità è cosa nota. Resta però il fascino di un racconto che unisce due grandi personaggi storici in un intreccio peccaminoso.

Di seguito riportiamo un interssante articolo su Vittoria Colonna tratto dal sito www.letteratour.it 

Vittoria Colonna dimora sul Castello Aragonese di Ischia quasi ininterrottamente dal 1509 al 1536.

I sonetti composti durante il soggiorno ischitano appartengono al nucleo tematico delle poesie d’amore, opera giovanile di Vittoria, il cui corpo centrale è costituito dalle rime in  morte dello sposo Ferrante d’Avalos. L’opera della poetessa presa a riferimento è costituita dalle Rime, la numerazione dei sonetti qui utilizzata si basa sull’edizione curata da Alan Bullock, Bari, Laterza, 1982.

Le Rime di Vittoria Colonna hanno una storia editoriale alquanto complessa: la poetessa non autorizzò nessuna stampa, le sue poesie circolavano solo attraverso uno scambio privato di codici manoscritti inviati in dono a importanti personaggi dell’epoca. Ciò ha reso difficoltosa anche una sistemazione cronologica delle rime, generalmente distinte in rime amorose e rime spirituali.

Tra i più importanti manoscritti ricordiamo quello donato a Margherita di Navarra nel 1540 (manoscritto Laurenziano Ashburnhamiano 1153), a Francesco della Torre tra il 1540 e il 1541 (manoscritto II IX 30 della Biblioteca Nazionale di Firenze) e l’elegante copia membranacea del 1540-1542 donata a Michelangelo (Vaticano latino 11539).

Le Rime ebbero moltissime ristampe negli anni del Concilio di Trento e, dopo scarsa fortuna nel Seicento, furono ristampate nel Settecento. Apre il corpus la dichiarazione del valore terapeutico della scrittura poetica, cercata, senza altre pretese, come sfogo e conforto al proprio dolore, tanto profondo da impedire la dolcezza del canto

Sonetto 1:

Scrivo sol per sfogar l’interna doglia ch’al cor mandar le luci al mondo sole, e non per giunger lume al mio bel Sole, al chiaro spirto e a l’onorata spoglia.
Giusta cagion a lamentar m’invoglia; ch’io scemi la sua gloria assai mi dole; per altra tromba e più sagge parole convien ch’a morte il gran nome si toglia.
La pura fe’, l’ardor, l’intensa pena mi scusi appo ciascun; ché ’l grave pianto è tal che tempo né ragion l’affrena. Amaro lacrimar, non dolce canto, foschi sospiri e non voce serena, di stil no ma di duol mi danno vanto.

Questa professione di umiltà poetica, unita alla richiesta di perdono al lettore per la trascuratezza stilistica, si ispira al sonetto di apertura del Canzoniere di Petrarca. Quella sorta di avvertimento iniziale sull’incapacità di celebrare e glorificare degnamente il suo bel Sole, il "tu" della raccolta, suona come una preterizione ed anticipa la predominante tematica amorosa delle Rime, anch’essa di stampo petrarchesco, ispirata da una passione esclusiva ed ideale che sopravvive alla morte.

Le Rime di Vittoria Colonna sono infatti improntate al petrarchismo, il genere letterario più diffuso nel XVI secolo, tanto da essere una vera e propria moda e da assumere anche una funzione di promozione sociale e culturale, favorendo e consolidando l’affermazione della donna nella società e nell’ambiente culturale del Cinquecento.

Nei sonetti di Vittoria Colonna si ritrovano dunque le convenzioni della poesia petrarchista.Come nel Canzoniere di Petrarca, così nei versi della poetessa rari sono gli elementi concreti, realistici, descrittivi e narrativi; non ci sono accenni nemmeno ai particolari fisici di Ferrante, che è una figura ancora più evanescente di Laura, interamente idealizzata, quasi soprannaturale, pertanto mai nominata e cantata sempre con l’appellativo mio bel Sole o mio bel lume.

Anche il paesaggio ischitano appare stilizzato: le albe, i tramonti, il mare, gli scogli, le onde, i fiori di cui la poetessa amava circondarsi, la torre, il monte più volte citato (che allude all’isola nel suo complesso o, meno probabilmente, al monte Epomeo) perdono la loro concretezza materiale, la loro esteriorità, per diventare elementi di un mondo intimo, lo specchio delle situazioni mutevoli del suo cuore: sono di volta in volta lo sfondo al dolore inconsolabile per l’assenza dello sposo, al ricordo dei suoi ritorni gloriosi e dei primi tempi felici, ai suoi sogni o ai suoi aneliti religiosi.

Così, lo scoglio (il Castello Aragonese) ora è “caro”, ora “orrido e solo”, ora “alto”, il mare tranquillo o turbato, l’intera natura ora ostile, ora amica

Nel sonetto 9 delle Rime Amorose la bellezza della natura circostante compare solo come ricordo:

Oh che tranquillo mar, che placide onde solcavo un tempo in ben spalmata barca !
Di bei presidi e d’util merce carca l’aer sereno avea, l’aure seconde
[…] (vv. 1-4)

Già nelle terzine finali il paesaggio cambia volto (vv.9-14):

L’aversa stella mia, l’empia fortuna scoverser poi l’irate inique fronti dal cui furor cruda procella insorge ;
venti, piogge, saette il ciel aduna, mostri d’intorno a divorarmi pronti, ma l’alma ancor sua tramontana scorge.

Nella famosa Pistola de la illustrissima signora Marchesa di Pescara ne la rotta di Ravenna, “Eccelso mio signor, questa te scrivo”
(n.1 delle Rime amorose disperse in Bullock), indirizzata al marito fatto prigioniero insieme al padre Fabrizio Colonna dai francesi dopo la battaglia di Ravenna del giorno di Pasqua 11 aprile 1512, tra i pochissimi versi scritti durante la vita dello sposo, giudicati tra i più belli del suo canzoniere, Vittoria sfoga il suo stato d’animo di donna triste e angosciata per le frequenti assenze del marito.

Qui gli elementi naturali appaiono come portatori di foschi presagi (vv.58-72):

[…] ad un punto, il scoglio dove posa il corpo mio, che già lo spirto è teco, vidi coprir di nebbia tenebrosa, e l’aria tutta mi pareva un speco di caligine nera ; il mal bubone cantò in quel giorno tenebroso e cieco. Il lago a cui Tifeo le membra oppone boglieva tutto, oh spaventevol mostro! il dì di Pasca in la gentil stagione ; era coi venti Eulo al lito nostro, piangeano le sirene e li delfini, i pesci ancor ; il mar pareva inchiostro ; piangean intorno a quel i dei marini, sentend’ad Ischia dir: «Oggi, Vittoria, sei stata di disgrazia a li confini […]»

Bellissima la descrizione della tempesta premonitrice abbattutasi improvvisa sullo “scoglio” in pieno giorno, uno dei pochi brani che si possono definire realistici, tanto sono vivi i particolari descrittivi del paesaggio ischitano. Compare anche l’immagine del gigante Tifeo, ricorrente sia nei versi di Vittoria Colonna che nelle opere dei poeti del cenacolo umanista nato intorno alla sua figura. Si tratta del gigante ribelle che, secondo il mito greco, per punizione di Giove giace incatenato sotto l’isola di Pithecusae (il nome greco di Ischia), eruttando fiamme ed acque calde e provocando terremoti con i suoi movimenti.

Dopo la morte di Ferrante, avvenuta nel 1525 per le ferite riportate durante la battaglia di Pavia contro Francesco I di Francia, le rime acquistano un tono più austero. Sono proprio queste liriche ispirate dalla perdita del “Bel Sole” e dedicate al culto della sua memoria, a suscitare l’ammirazione di Ludovico Ariosto che le dedica alcune stanze nell’Orlando Furioso (canto XXXVII, st.16 e segg.):

Vittoria è il nome; e ben conviensi a nata fra le vittorie, ed a chi, o vada o stanzi, di trofei sempre e di trionfi ornata, la vittoria abbia seco, o dietro o innanzi. Questa è un’altra Artemisia, che lodata fu di pietà verso il suo Mausolo ; anzi tanto maggior, quanto è più assai bell’opra, che por sottoterra un uom, trarlo di sopra. (st.18)

La perdita di Ferrante è resa ancora più amara dalla mancanza di un erede naturale, ma Vittoria rivendica una maternità spirituale, “platonica” sul cugino Alfonso del Vasto, già designato erede, ragazzo ribelle ma intelligente alla cui educazione si dedica lei stessa, incoraggiandone la naturale predisposizione alla poesia.

Ancora più doloroso è il rivedere quei luoghi un tempo rischiarati dai ritorni gloriosi di Ferrante sull’isola e se anche intorno fiorisce la bella stagione, l’unica, vera primavera per lei è dentro il suo cuore perché è il suo Sole a produrla.

A tratti è la mente che dissolve le nebbie della sofferenza immaginando di vedere dal Castello lo sposo-Elia ritornare splendente dal cielo.
Per una volta lo scoglio non le appare più tanto orribile

Sonetto 13 delle Rime amorose disperse, vv.1-4, 9-14:

 Quando io dal caro scoglio guardo intorno la terra e ‘l mar, ne la vermiglia aurora, quante nebbie nel ciel son nate alora scaccia la vaga vista, il chiaro giorno. […] Per l’exempio d’Elia non con l’ardente celeste carro ma col proprio aurato venir se ‘l finge l’amorosa mente a cambiarmi ‘l mio mal doglioso stato con l’altro eterno; in quel momento sente lo spirto un raggio de l’ardor beato.

Ma, quasi pentita per questa momentanea distrazione, subito rincalza (sonetto 15 delle Rime amorose disperse, vv.1-4):

Vivo su questo scoglio orrido e solo quasi dolente augel che ‘l verde ramo e l’acqua pura aborre, e a quelli ch’amo nel mondo ed a me stessa ancor m’involo […]

La fedeltà allo sposo significa fedeltà anche allo “scoglio” da lui amato (sonetto 29 delle Rime amorose disperse, Sperai che ’l tempo i caldi alti desiri, vv.9-14):

[…] D’arder sempre piangendo non mi doglio ; forse avrò di fedele il titol vero, caro a me sovr’ogn’altro eterno onore.
Non cangerò la fe’ né questo scoglio ch’al mio Sol piacque, ove fornire spero come le dolci già quest’amare ore.

La sua resistenza nel dolore e nella fede è come quella del ginepro che non si lascia spezzare dal vento...

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