Luigi De Angelis. Il poema popolare di Ischia

Piccoli quadri che parlano all'anima, opere d'arte su fogli di cartone dove per incanto un piccolo, antico mondo di casette basse, strade sterrate, nature morte e spiagge vuote prende vita, magicamente con pochi tocchi di colore.Tutto avviene sottovoce in questi quadri, anche quando il tema è la festa

Stupefacente è la storia di questo grande artista.

Luigi de Angelis, Gigi, come lo chiamavano confidenzialmente nella sua isola, nacque a Roma nel 1883, ma suo padre e sua madre erano di Ischia, dove, del resto, tornarono ben presto per vivere il resto della loro esistenza.

Dopo aver tentato vari mestieri, Luigi decide di fare il barbiere, lavoro molto apprezzato a quel tempo, specie dalle donne, perché considerato «fine» e poi perché i barbieri erano anche, a loro modo, cantanti e suonatori di chitarra, e Gigi, naturalmente, suonava (anche il violino!), cantava graziosamente e scriveva anche versi di canzoni.

Aprì dunque una «bottega» proprio sulla banchina del molo, portando avanti, brillantemente, la sua attività di Figaro. Ma a quarant’anni, nel 1924, un bel mattino gli venne in testa l’idea di dipingere il paesaggio che aveva sempre davanti agli occhi e che si rifletteva nella grande specchiera, dietro la testa del cliente.

Comperò da un tabaccaio dei colori ad acquarello per bambini e dipinse su certi fogli di carta da salumiere le sue prime opere tutte ispirate alla stupenda e - allora! - incontaminata, natura di Ischia.

A mano a mano che eseguiva le sue «vedute», le attaccava col sapone da barba sugli specchi del Salone. In un breve scritto autobiografico che l’artista volle affidarmi così de Angelis narra il suo primo incontro «ufficiale» con l’Arte. (Trascrivo quasi letteralmente, lasciando intatti sintassi e ortografia): «Dopo circa tre mesi che dipingevo capita per essere sfumata la barba un signore, il quale mentre gli tagliavo la barba lui contemplava un mio dipinto raffigurante il famoso castello d’Ischia con barche e figure, che era attaccato sulla parete di sopra lo specchio di fronte alla poltrona dove lui era seduto. Finito di sbarbarlo, nell’atto di pagarmi, facendo una pausa mi dice: chi fare questi quadri? Subito risposi li faccio io. No possibile, lei barbiere no pittore, disse. Ci volle il bello e il buono per convincerlo, nonostante che vari clienti lo assicurassero. A questo (punto) mi domandò se volevo vendere il suddetto quadro e che moneta volevo. A questa domanda fui imbarazzato... e non sapendomi regolare a chiedere il prezzo mi rivolsi a un cliente e mio caro amico il pescatore Domenico Di Meglio, il quale ha avuto per me e per la mia pittura sempre una sincera stima, il quale mi suggerì chiedigli 200 lire, che riferii all’acquirente il quale con gioia e meraviglia mise mano al suo portafoglio e mi versò le lire duecento, ritirando il dipinto ringraziandomi più volte e di suo volere mi disse: io sono il pittore Purrmann da Germania ... ».

Hans Purrmann, lo «scopritore» di de Angelis, era vissuto dieci anni a Parigi, dal 1904 al 1914, nel periodo cioè dei grandi rivolgimenti del gusto e della cultura. Vi aveva fondato, con i pittori Levy e Moll, la celebre scuola di Matisse. Ma appena possibile, Purrmann correva a Ischia, richiamato dall’incanto di quel paesaggio, che egli ha dipinto con amore e fedele dedizione nel corso della sua lunga vita. (...)

Dopo la prima investitura da parte del Purrmann vennero presto altri riconoscimenti, da artisti e scrittori europei, tutti legati in qualche modo alle esperienze dell’avanguardia storica. Egli fu il solo pittore napoletano ad avere dimestichezza di vita e di lavoro con la colonia - che in un certo momento fu assai numerosa - degli artisti stranieri. Tuttavia la pittura di de Angelis non subì influenze «moderniste»; semmai fu proprio la sua stupefacente capacità di ridurre in forme sintetiche ma intensamente poetiche e visionarie, i motivi della natura paesistica della sua Isola a influenzare la pittura di quei suoi difficili amici. (...)

De Angelis, temperamento ricco di istinti naturalistici, ha sempre mantenuto fede ad essi e non ha mai tentato di appropriarsi di un linguaggio «colto», quale era, ad esempio, quello dei suoi amici tedeschi; della cui opera, peraltro, egli sapeva cogliere l’intimo messaggio poetico anche quando la sua formulazione espressiva appariva particolarmente astrusa e stilisticamente complessa. (...)

Invitato da un mercante a trasferirsi in Francia, Gigi rifiutò

Perché sapeva bene che, strappato alla sua terra, recisi i rapporti umani che lo legavano così intimamente non solo ai familiari e agli amici, ma a tutta l’isola: ai pescatori, ai venditori ambulanti, alle carrozzelle, agli aspetti intimi e segreti del paesaggio isolano, egli avrebbe smarrito le fonti stesse della sua ispirazione.

Espose invece, nel 1929, alla «Libreria del 900», un centro assai vivo di cultura democratico operante a Napoli fino a quando la polizia fascista non ne ordinò la chiusura. Nel 1930, inopinatamente, de Angelis fu invitato alla Biennale di Venezia, forse perché da Maraini, allora imperante, e dai suoi collaboratori, la sua pittura fu scambiata per «novecentista».

Quella, fu infatti, l’unica volta in cui Gigi poté partecipare ad una esposizione pubblica italiana a livello internazionale. Presto, intorno alla sua opera e al suo nome, cominciò a formarsi la leggenda del «barbiere», cioè del pittore naif, dell’artista della domenica, del personaggio folcloristico; leggenda che, peraltro, non valse neppure a stimolare la curiosità dei turisti.

Gigi restò solo, con i suoi compagni pittori tedeschi, anch’essi «irregolari», poveri come lui, estraneo alla cultura ufficiale del tempo e solo amato e stimato da un ristrettissimo gruppo di artisti, scrittori, poeti italiani i quali, quando potevano, gli acquistavano anche dei quadri. I suoi estimatori, ormai numerosi in molti paesi europei, si adoperarono per dargli coraggio, facendolo esporre a Parigi (galleria Cramine), a Berlino, a Zurigo (galleria Foster), a Milano (galleria Il milione), a Genova (galleria Genova), a Firenze (galleria S. Trinità).

Suoi dipinti entrarono anche in grandi collezioni moderne, ma la sorte umana di de Angelis non cambiò, egli continuò a lottare contro la più nera miseria e addirittura contro la fame, nel totale disinteresse dei suoi concittadini.

Abili e disinvolti trafficanti compravano da lui, a vilissimo prezzo, le opere, esponendole per proprio conto in Svizzera, in Francia e in Germania, realizzando guadagni lauti e diffondendo, all’estero, la fama equivoca di un de Angelis naif, del «Barbiere d’Ischia», nel momento in cui veniva profilandosi quell’indirizzo mercantile che valorizza indiscriminatamente i cosiddetti naifs; indirizzo giunto, oggi, alla fase della mercificazione e del boom commerciale.

La naiveté, l’innocenza è una prerogativa costante di tutti gli artisti.

Essa indica una condizione psicologica e spirituale che permette di «scoprire», nella realtà del mondo in cui viviamo, cose e significati che ad altri sfuggono: rapporti di interdipendenza, armonie e coincidenze poetiche, «atmosfere» imprevedibili e del tutto insospettabili in un paesaggio naturale o in un volto umano.

Naif, dunque, è la condizione di vita dell’artista, del pittore.

Si nasce pittore e se si possiede quell’occhio, quella capacità di penetrazione, quella facoltà di «scoprire» e rivelare le realtà che si celano oltre le apparenze, si è pittori, dunque si possiede il candore, la naiveté dell’artista. (...)

Tra de Angelis e l’isola d’Ischia esiste un rapporto del tutto simile a quello che intercorre tra Chagall e il suo villaggio: Vitebsk. Al pari del grande pittore russo, Gigi narra la vita e le vicende umane della sua terra, con una continuità di impegno tematico che trasforma ogni singolo quadro nel capitolo di un vasto poema popolare, il cui svolgimento non ha soluzioni di continuità ed è come un blocco compatto di poesia e di felice invenzione fantastica.

Spesso appare, nei suoi grandi quadri di figure, una vena ironica e amara, che sottolinea la pietà e la commozione dell’artista verso il mondo che lo ispira e al quale si sente indissolubilmente legato. Anche quando l’ispirazione sembra stimolata da fatti e persone colti nell’ovvietà della vita quotidiana, la sua pittura ha qualcosa di remoto, di antico, che però, oltre il ricordo delle decorazioni compendiarie pompeiane di via dell’Abbondanza, vive artisticamente e culturalmente nel nostro tempo e nel clima delle avanguardie artistiche che lo caratterizzano.

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