Cucina povera, cucina prelibata. La fresella con il pomodoro
La cosa straordinaria della cucina ischitana è che riesce a sedurre sia con i piatti più elaborati, sia con alcune pietanze che sono di una disarmante semplicità. La fresella con il pomodoro, o caponata ischitana, è una di quelle cose da mangiare ad Ischia per capire quanto con poco o niente si riesca a godere a tavola. La fresella è un piatto che nasce nelle campagne nel tempo d'estate, quando i contadini, dopo tanto lavoro, a mezzogiorno sostano all'ombra di un albero o di una cantina e mangiano qualcosa di veloce, da preparare al momento, ma che sia in grado di restituire intatto il piacere del gusto.
La fresella si presta all’uso: si tratta di un pane molto biscottato che con un po’ d’acqua, riprende il suo status originario. E si piega a condimenti rapidi a base di olio e pomodoro, a volte qualche acciuga e tanto basilico. Dai campi al mare il passo è breve: cibo naturalmente a lunga conservazione soddisfaceva ampiamente le esigenze dei marinai, che la portavano con sé nelle loro lunghe battute di pesca; si dice che i pescatori bagnassero la fresella addirittura con l’acqua di mare, ammorbidita e salata non restava altro che metterci su qualche pomodoro “scamazzato” e un filo di olio.
Ci sono varianti alla classica fresella con il pomodoro: è ottima con i fagioli, con il brodo di polpo, e con il sugo della trippa. Leggiamo un po’ di storia della “caponata” dal sito www.freselle.it: «La fresella è l’ingrediente-base della caponata. Una caponata senza la fresella è come Roma senza il Colosseo: un’assurdità. Per fare la vera caponata, insieme alla fresella devono esserci l’olio, il pomodoro e il sale (un pizzico). Almeno in origine: poi vi si aggiungeranno l’ acciuga (per l’apporto proteico) e, talvolta, le olive verdi. Caponata è nome antico, ma così antico che non si sa più da dove sia arrivato. Certo è che gli antichi osti latini si chiamavano “cauponares”; e molto più avanti, alla fine del 700, si legge del “cappone di galera alla siciliana”, o “cappone di magro”. Tornando alla fresella, della sua presenza nel sud d’Italia ci sono testimonianze già a partire dal 1300. Di lei rimane l’eco nelle voci dei venditori ambulanti. A Napoli le freselle le vendeva il “tarallaro”. Intorno al 1870 questo era il grido del tarallaro: “pe ve scarfà lo stomaco in chesta piattella, cotiche cu freselle ognuno sta a magnà!” Cibo per lo stomaco del popolo, la fresella è perciò presente nella lingua del popolo; il dialetto. E proprio in dialetto la citano due grandi della poesia napoletana, Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo. Fresella deriva invece, con buona probabilità, dal latino “frendere”, che vuol dire macinare, pestare, stritolare. Plinio usava questo verbo nell’accezione di “ridurre in piccoli pezzi”, e da questa radice proviene l’aggettivo “friabile”. Ed è esattamente questo il destino della croccante e ruvida fresella: più o meno ammorbidita nell’acqua o negli altri liquidi, viene sminuzzata senza alcun riguardo. Lei però, in linea col suo “understatement” e col suo spirito di servizio, non ne soffre; anzi, ne è fiera».
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