Giorgio Buchner scopre l'antica Pitecusa

Un immenso libro fatto di innumerevoli pagine è racchiuso nella terra ischitana, è la sua storia o, meglio, è la traccia infinita che la storia lascia nel suo svolgersi e che la terra coperta di fiori e di alberi, la terra grassa o argillosa, la terra che si trova giù in fondo, sotto il mare, nasconde gelosa del suo passato

Anche la sua vita e la sua morte lasciavano tracce, vettovaglie per cibarsi, strumenti per lavorare, tombe per raccogliere i resti dei propri cari. Nei primi decenni del Novecento bastava soffiare sopra la terra ischitana per raccogliere cocci e frammenti di anfore, utensili e strumenti risalenti al tempo in cui l'isola era duemila e trecento anni più giovane.

«Finalmente – ricorda Buchner – il giorno venne che andai per la prima volta a cocci sul Monte di Vico. E ne raccolsi di tante specie diverse, neri e dipinti a righe rosse e brune, e altri grezzi che però avevano la superficie ben levigata e lucida. Ma i cocci restavano ancora muti per me che non sapevo nulla della ceramica antica. Finché non venne a farci visita un estroso barone siciliano, Otto de Fiore, ricercatore dalle attività multiformi che si occupava ugualmente di zoologia, come di geologia e di archeologia. Così appresi che avevo trovato cocci greci di stile geometrico dell'VIII secolo a. C. e anche preistorici dell'età del bronzo, attici a vernice nera lucidissima, campani a vernice nera più scadente e imparai dal vivo le prime nozioni sulla ceramica antica».

Giorgio Buchner aveva trovato le testimonianze della città greca di Pithecusa, fondata nell'VIII sec. su Monte di Vico.

All'epoca in cui si aggira vorace di conoscenza sulla assolata collina di Monte Vico, Giorgio Buchner è poco più di un ragazzino, ma con una passione per la storia, l'antichità, i classici greci e latini che lo avrebbero condotto molto lontano. Si può dire infatti, senza “tema di smentita”, che Buchner negli anni 50 scopre letteralmente la storia antica di Ischia. Fino agli anni '30 infatti l'isola era del tutto sconosciuta dal punto di vista archeologico. Eppure le tombe pagane che ogni tanto venivano scoperte per caso dai contadini nella valle di San Montano la dicevano lunga sulla civiltà che un giorno aveva animato quei luoghi. Di scavi scientifici però neanche l'ombra. A stimolare la curiosità del giovane Buchner c'erano poi le indicazioni e le annotazioni di antichi studiosi. Uno era il medico e sacerdote Francesco De Siano di Lacco (1740? - 1813).

De Siano fu il primo ad osservare che sul promontorio di Monte di Vico c'era una grande quantità di rottami di tegole e di vasi antichi e lo mette nero su bianco in un libretto dal titolo infinito: “Brevi e succinte notizie di storia naturale e ciuile dell'Isola d'Ischia del Dottor Fisico Don Francesco De Siano, per servire di guida, e comodo ai viaggiatori, ed a quei, che debbono fare uso delle acque, e fumarole di detta isola”, iniziato a stampare a Napoli nel 1798 ma uscito, a causa della rivoluzione napoletana del 1799, soltanto nel 1801. Nel libro di Don Francesco è scritto «…che la sede principale delle colonie greche (di Pithecusa) sia stato il Lacco, come situato nel mezzo dell'isola, con una ben larga e spaziosa marina più atta per il commercio e la più sicura di tutte le altre per l'ormeggio e ricovero de' bastimenti». Don Francesco osserva tombe di età ellenistica, cioè del III Il sec. a. C., in casse di tufo e tombe a tegole di età romana.

Ed è ancora un medico, questa volta di origine svizzera Jacques Etienne Chevalley de Rivaz, a parlare in suo libro, dedicato alle acque termali isolane, di alcune tombe che egli ha visto scavare nella Valle di S. Montano; tra queste scrive De Rivaz ve n'è qualcuna con “vasi etruschi”. Ma quelli che all'epoca di De Rivaz erano ritenuti vasi etruschi erano in realtà vasi attici a figure nere e rosse del VI e V sec. a. C. Infine lo storico tedesco Julius Beloch nel suo libro Campanien - Storia e topografia antica di Napoli e dintorni, I ed. 1879, Il ed. 1890 - dedicò un capitolo a Pithecusa. Beloch ha letto quanto scritto da Don Francesco De Siano sull'antica città greca e viene ad Ischia a testare con mano che sia la verità, quindi scrive «tutta la superficie di Monte di Vico è realmente cosparsa di frammenti di tegole e di vasi antichi e dove si raschia il terreno con la punta del bastone da passeggio vengono alla luce interi strati di cocci».

Dunque Pithecusa era davvero lì, quello su cui Beloch non si pronuncia è che ci si trovasse davanti alla primissima colonia greca in Italia. Il giovane liceale Buchner trova il libro di Beloch nella libreria del padre, nel settore dedicato alla nostra isola. Lo divora l'immagine della collina di Monte Vico cosparsa di antichi cocci che si marchia a lettere di fuoco nella sua fantasia tanto che ricorda: «non vedevo l'ora della nostra prossima partenza per le vacanze estive ad Ischia (…) Nacque così ad Ischia la mia passione per l'archeologia e, quando venne il momento di iscrivermi all'Università, avevo ormai deciso di abbandonare le orme paterne e di non studiare più biologia, come prima avevo pensato. Naturalmente desideravo soprattutto di poter scavare la necropoli nella Valle di San Montano, dove c'era la speranza di poter trovare testimonianze assai più complete e consistenti dell'antica Pithecusa che non sul Monte di Vico, dove gli strati più antichi non soltanto dovevano essere stati già disturbati dalla vita della città nei secoli posteriori, ma tutti i livelli archeologici si presentavano rimaneggiati e compromessi dalle opere di terrazzamento per l'impianto di vigneti. Dovevano passare ancora anni finché potei iniziare finalmente i primi saggi a San Montano nella primavera del 1952 che portarono subito alla scoperta di tombe del VII e poi dell'VIII sec. a. C. Da allora le ricerche a San Montano sono continuate, anche se con diverse interruzioni di vari anni in cui non si è scavato».

La necropoli di San Montano

Gli scavi archeologici condotti da Giorgio Buchner, iniziati nel 1952, non interessarono soltanto la collina di Monte Vico ma anche la necropoli di San Montano; lo Scarico dell'acropoli, detto “Scarico Gosetti” sul fianco orientale di Monte Vico; il quartiere metallurgico di Mazzola sul colle di Mezzavia, sul versante opposto della valle di San Montano rispetto all'acropoli.

«La necropoli si estende per almeno 500 metri in lunghezza, – scrive David Ridgway ne “L’alba della Magna Grecia” – mentre la larghezza è di circa 150 metri all'estremità verso mare, e si riduce via via all'interno fino a meno di 75 metri; l'area interessata, di forma approssimativamente triangolare, misura pertanto più di 50.000 mq, e sappiamo che almeno in parte restò in uso ininterrotto per mille anni, tra l'VIII secolo a. C. e il III d. C. Gli scavi si sono svolti in due serie, la prima dal 1952 al 1961, la seconda dal 1965 in avanti. Il primo scavo a Monte di Vico fu condotto nel 1965 allo scopo di esplorare ciò che era venuto alla luce in occasione della costruzione di una vasta villa privata sul fianco orientale del colle, che domina il moderno lungomare di Lacco Ameno. Qui si trova un burrone scavato dall'acqua piovana nei tufi incoerenti, che nella sezione al di sotto della progettata villa conteneva una quantità enorme di ceramiche e altri materiali, scaricati da mano umana o da agenti naturali senza ombra di ordine stratigrafico. La quantità stessa dei materiali recuperati da questo scarico dell'acropoli (scarico Gosetti) è di per sé impressionante. L'insediamento di Pithecusa non era limitato al promontorio di Monte di Vico, ma si estendeva anche sul versante nordest della collina di Mezzavia (sopra l'attuale strada di circumvallazione), di faccia al fianco orientale dell'acropoli al di là di una zona bassa e pianeggiante che si prolunga verso nordovest nella valle di San Montano. Dalla raccolta sistematica di cocci in superficie risulta che il complesso suburbano di Mezzavia si estendeva per una lunghezza di almeno 500 metri in una serie di nuclei distinti, tre dei quali sono stati accertati, fondati tutti nella fase LG I. Di questi, uno solo è stato meglio definito e parzialmente scavato dal 1969 al 1971 nella località detta Mazzola in un'area a emiciclo chiusa su entrambi i lati da più alti livelli di terreno».

Ma facciamo parlare direttamente il protagonista di queste scoperte: «Più recentemente, all'esplorazione delle tombe – scrive Buchner – si è aggiunta anche la scoperta di livelli di abitazione dell'VIII e VII sec. che ha notevolmente completato e approfondito quell'immagine di Pithecusa che prima era fondata soltanto sui corredi deposti nelle tombe e sulle usanze funerarie. Sul fianco occidentale di Monte di Vico, durante la costruzione della Villa Gosetti, apparve uno scarico antico con linguaggio attuale si direbbe una discarica di rifiuti urbani solidi, con il quale era stato riempito un profondo burrone eroso dalle acque piovane, pieno di frammenti di ceramica che vanno dall'età del bronzo fino al II sec. a. C. Ma più importante ancora era la scoperta di un insediamento suburbano in località Mazzola, dall'altro lato della nuova strada di circumvallazione, coi resti ancora relativamente ben conservati, oltre che di strutture abitative, soprattutto di officine per la lavorazione dei metalli, ferro, bronzo e probabilmente anche di metalli preziosi».

Ma è soprattutto quando comincia gli scavi nella valle di San Montano che Buchner si trova di fronte ad a reperti importantissimi per comporre il puzzle del remoto passato ischitano «Lo scavo della necropoli di San Montano – scrive Buchner – per due circostanze singolari presenta complicanze e difficoltà inconsuete. La prima circostanza insolita è il fatto che la stessa area è stata usata continuatamente per un millennio come luogo di sepoltura, precisamente dalla metà dell'VIII sec. a. C. alla seconda metà del II sec. d. C. Ciò era possibile grazie al continuo apporto di terreno alluvionale dilavato dalle colline circostanti che ha rialzato mano mano il piano di campagna. Troviamo perciò le tombe delle diverse epoche successive sovrapposte una all'altra, il che comporta che della stessa area scavata dobbiamo rilevare tre e talvolta quattro piante. Dall'alto in basso si incontrano prima le tombe di età romana, per lo più con copertura di tegole a doppio spiovente, poi quelle di età ellenistica che possono essere ugualmente con copertura di tegole a spioventi o costruite con grandi lastroni di tufo, che spesso sono state vere e proprie tombe di famiglia usate per molte deposizioni successive. Troviamo poi le tombe del V e VI sec. a. C. in casse ricavate da un sol pezzo di tufo o anche in casse formate da tegole con copertura in piano. Appena al di sotto di queste si trovano poi le tombe che maggiormente ci interessano, quelle del VII e VIII sec.

E qui troviamo un'altra complicazione: mentre le tombe dei periodi più recenti sono nella grande maggioranza ad inumazione, in quello più antico si praticava contemporaneamente tanto il rito della cremazione, riservato prevalentemente agli adulti, quanto quello della inumazione, usato prevalentemente per i bambini. Le tombe a cremazione si presentano come piccoli tumuli formati da pietre che coprivano gli avanzi del rogo ed erano originariamente visibili sulla superficie del terreno, mentre le tombe ad inumazione erano a fossa più o meno profondamente scavata nella terra. Mano mano che aumentavano le tombe a cremazione degli adulti, i tumuli di queste si estendevano al disopra delle tombe dei bambini precedentemente deposti nelle fosse. Tombe a cremazione a tumulo di questo tipo si sono trovate finora soltanto ad Ischia, mentre erano certamente più largamente diffuse, ma soltanto qui questi tumuli facilmente degradabili hanno potuto conservarsi per il forte apporto di terreno alluvionale che già nel volgere di qualche secolo li ricopriva sottraendoli alla distruzione.

Un'altra circostanza, del tutto singolare, è dovuta alla natura vulcanica dell'Isola d'Ischia. Tutta la Valle di S. Montano è infatti una zona termale: più si scava in profondità e più il terreno è riscaldato da fumarole vulcaniche, tanto che in alcune tombe, al momento dell'apertura, abbiamo misurato fino a 63 gradi C. Questo calore umido produce effetti spesso disastrosi, specie sulla ceramica, ma anche sui metalli. Il consolidamento e restauro del materiale pone perciò problemi tutto particolari e spesso richiede un lungo e paziente lavoro. I reperti si presentano di conseguenza con un aspetto più o meno fortemente alterato, i colori originari dei vasi dipinti sono offuscati, gli oggetti di metallo ridotti allo stato di ossido. Questo fatto, che a prima vista può sembrare un grosso guaio, è stato invece una grande fortuna! Soltanto alla circostanza che i reperti per il loro cattivo stato di conservazione erano poco appetibili e non commerciabili è dovuto il caso, più unico che raro, che la necropoli di Pithecusa, pur essendo stata individuata già alla fine del 1700, ad eccezione delle poche tombe di età piuttosto recente scavate nel secolo scorso, è rimasta praticamente inviolata finché vi iniziai le ricerche sistematiche nel 1952, mentre, per esempio, la necropoli di Cuma è stata ampiamente frugata senza alcun metodo scientifico durante tutto il secolo scorso, tanto che oggi non possediamo che tristi resti smembrati e incompleti dei corredi tombali cumani. Poco ci importa che i reperti della necropoli di San Montano praticamente abbiano perduto ogni valore commerciale, dal momento che il loro incommensurabile valore scientifico, che illumina di luce, fino a pochi decenni fa insperabile, uno dei più importanti periodi della nostra storia, non è stato per nulla compromesso dai vapori delle fumarole vulcaniche.

Scopo dello scavo archeologico scientifico oggi, infatti, non è più quello di ricuperare singoli oggetti di bell'aspetto estetico e di curiosità antiquaria, ma quello di conoscere attraverso il materiale e le altre informazioni, raccolti nello scavo, la storia delle popolazioni del passato, intesa non tanto come storia politica di regnanti e di guerre, ma come conoscenza dei modi di vita, della struttura sociale degli agglomerati umani, degli scambi commerciali indicati dagli oggetti, importati da altre regioni o esportati, dei vicendevoli influssi intercorsi tra le diverse civiltà».

L'archeologia ischitana è ormai grazie a Buchner un capitolo aperto e ricco di nuove scoperte ed infatti lo studioso tedesco non si limita a scavare soltanto a Lacco Ameno.

Buchner trova tracce di contesti abitativi anche ad Ischia, nelle zone del Cilento e di San Michele; inoltre avanzi di manufatti litici rinvenuti in diversi luoghi dell'isola gli danno la prova che sull'isola la presenza dell'uomo già c'è nel periodo Neolitico (3500 ca. a. C.). I rinvenimenti di insediamenti umani dell'età del Bronzo sono però più numerosi e vengono alla luce soprattutto su alture naturalmente difese come la collina del Castiglione (fra Porto d'Ischia e Casamicciola), ma anche a Zaro (Forio) e Sant’Angelo. Giorgio Buchner scopre i resti di un villaggio sulla collina del Castiglione: si trattava di agglomerato di capanne risalente all'età del Bronzo medio - inizi età del Ferro. Buchner trova al Castiglione ciotole, anfore, catini di grandi dimensioni e vasi decorati a incisione dalla tecnica molto raffinata che la dice lunga sull'abilità di questi antichi vasai. Il villaggio del Castiglione è l'unico su tutta l'isola risalente all'età del Ferro, epoca in cui sembra che quasi tutti gli insediamenti umani sull'isola scompaiano. Nel villaggio del Castiglione avevano trovato una sede stabile gente appartenente al popolo italico degli Opici o Oschi. «I reperti, databili tra il IX e l'VIII secolo a. C. – scrive lo studioso Giovanni Castagna – rivelano, tuttavia, un mutamento nei procedimenti tecnici ed un cambiamento dell'economia domestica. Appaiono enormi giare, fornelli di terracotta portatili e, soprattutto, sembra essersi sviluppata la tessitura, come dimostrano le fuseruole, i rocchetti e le piramidette-sostegno per svolgere il filo del fuso e preparare l'ordito. Avanzi di pasti, inoltre, dimostrano che nell'età del Bronzo venivano già allevati il bue, il maiale, la capra e la pecora. Il villaggio scomparve sotto una coltre di cenere vulcanica, durante l'VIII secolo, per l'eruzione del dicco di Cafieri».

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