Erri De Luca: “Questa è la mia isola, l’Epomeo è la mia montagna”

“Quando torno ad Ischia le ordino di essere perfettamente uguale a come era, e lei, la mia fattucchiera, mi obbedisce”. Sono tanti gli scrittori del passato che hanno dedicato pagine ad Ischia. Ma non bisogna per forza andare indietro nel tempo per trovare letterati ammiratori dell’isola. Erri De Luca, scrittore napoletano, ha dedicato alla nostra isola pagine molto belle tra ricordi del passato ed incantesimi del presente

«Le isole suggeriscono reclusioni. Re e governi hanno fabbricato prigioni in ognuna di loro nel tirreno. Per un bambino che negli anni cinquanta del secolo scorso sbarcava a Ischia, l’isola costituiva invece la più vasta e pulita libertà. Si veniva da vicoli intasati del “paese d’o sole”, che smentivano il predicato e non permettevano alla luce di scendere a terra nemmeno a mezzogiorno».

A Ischia d’ improvviso non c’erano più barriere alla luce.

L’ avevamo addosso, intorno, splendeva anche sott’acqua. Cadevano i panni di città, si stava scalzi, con un paio di brache in giro tutto il giorno mentre la pelle produceva il cambio. Sotto i piedi si induriva a suola e si poteva correre sugli scogli, sul resto del corpo si sbucciava per le scottature, poi diventava spessa e scura, un cuoio lucente, ed era quella la libertà, una scorza che marcava il confine tra sé e il mondo.

Allora non si usavano gli unguenti contro i raggi. Si veniva dal fitto delle folle, dalla più celebre e alta densità umana d’Europa e d’ improvviso ci si trovava al largo, nel mare spalancato da ogni lato a galleggiare su un fondo buio, sotto il cielo scoperchiato e nudo. Quanto spazio sgombro tra se stesso e il bordo d’orizzonte; a fior di nervi veniva la vertigine di primi arrivati sopra la terra nuova. Ci si inselvatichiva, ci si sgrassava con sabbia e salmastro, poca acqua corrente sull’isola dentro i pozzi.

A settembre mancava, allora arrivava dal mare una nave cisterna a rifornire l’isola asciugata. Ischia era sconfinata per un bimbo che imparava la libertà a scopriva che coincideva con la bellezza pura. Ne ho avuta così tanta sotto i sensi nel recinto dell’isola, da non desiderare le oceanie, gli atolli corallini. Quella è roba per chi non si è saziato di bellezza da bambino sopra un isola sua, Ischia per me.

In essa, per non farmi mancare neanche quello, spicca una cima, una cresta crostosa di roccia processata da eruzioni. È l’Epomeo, che nascondeva dentro le sue grotte gli isolani in fuga dalle piraterie saracene. Poi fu un arrocco di monaci. Una cantina scavata nella pietra della cima conteneva a strati bottiglie di vino dell’isola.

Luigi negli anni sessanta e settanta governava la sommità del monte da una cucina e da un terrazzo, da poche stanze scarne e ruvide. Mi lasciava frugare dentro il mucchio dei vini mischiati alla rinfusa, tornavo con una bottiglia di "per’e palummo", piede di piccione, era il nome del vitigno, che aspettava da dieci anni d’essere versato. Il tappo usciva con sforzo di scassinatore. Il rosso denso non permetteva trasparenza né passaggio di luce nel bicchiere e nemmeno nei pensieri.

Chiuso in se stesso, rinchiudeva anche il bevitore. Scontroso, non dava confidenza. Allora a scogliere la lingua ci pensava il coniglio saltato nel tegame, scottato a vino bianco e pomodoro. Quello ridava voce a me e a Luigi, molte sere soli dopo gli ultimi clienti scesi a valle. Luigi era un uomo solenne, una voce di pozzo e di secchio che ci sbatte dentro. Orbo di un occhio per una cartuccia esplosa nel fucile, con altro pesava le persone.

Mi accettava perché amavo l’Epomeo.

Dopo cena narrava un repertorio di donne straniere di ogni età venute a farsi abbrancare da lui in qualche nicchia della pietra scavata della cima, magari lasciando il marito a bere limonata sul terrazzo. Venivano a orari diurni, la sera ritornavano alle loro pensioni, per loro era parte di una cura che prevedeva anche sabbiature, fanghi, acque termali. Integravano il trattamento con quella strapazzata maschile, brusca ma gradita.

Gli avessi mai sentito dire la parola amore. Allora ne avrei voluta qualche briciola anch’io di quella abbondanza femminile tra le braccia, ma niente da fare. Salivano per lui, se era occupato, aspettavano il turno. Era così la virilità, territoriale e strafottente. È stato l’Epomeo a mettermi le montagne dentro i sonni. Ho cominciato a scalarle tardi, intorno ai trent’anni suonati, e da allora molte cime sono passate sotto le dita e non mi fermerò finche non mi fermeranno loro. Ovunque sulle pareti vuote e gigantesche sono stato uno di passaggio, svelto a togliere il peso dei miei passi da loro, l’ingombro della mia ombra.

Solo sull’Epomeo no, solo lassù ho saputo d’essere un residente in terra, prolunga del suolo della cima come un ramo su un albero, un’onda sullo scoglio. Così montagne e mari tropicali erano alla portata di bambini selvatici d’estate sopra l’isola maestra che srotolava il mondo avanti agli occhi e ognuno poteva annusare l’anticipo del suo destino.

Ischia conteneva il futuro e la distanza: tutte le sue aspre profezie sono accadute. Quando ci torno non le chiedo più di sapere altro. Faccio un altro gioco: e lei, mia fattucchiera, mi obbedisce. Le basta di mostrare un solo balcone scrostato e arrugginito, una barca a remi di faggio, una lampara che ondeggia da lampione ubriaco: al resto penso io che sono visionario e perciò scrivo ".

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