Grandi pittori del Novecento ad Ischia

Il disastroso terremoto di Casamicciola del 1883 chiuse un'epoca felice per l'isola d'Ischia. La bellezza del posto, la semplicità della gente e, soprattutto, le acque termali, considerate le migliori al mondo per la cura di molti malanni, avevano attirato sull'isola molti turisti da tutto il mondo e, tra essi, molti artisti più o meno noti. Il pittore svizzero Arnold Böcklin (Basilea 1827 - San Domenico di Fiesole 1901) fu l'ultimo grande pittore del XIX secolo a trascorrere un lungo periodo di tempo ad Ischia, non tanto perchè ammaliato dalle bellezze dell'isola, quanto per curare una dolorosissima artrite che, avendogli paralizzato il braccio destro, gli impediva di lavorare, rendendolo nervoso e scostante con gli amici

articolo di Massimo Ielasi tratto dalla Rassegna di Ischia

Nell’isola Bocklin venne in compagnia d’un altro pittore, Hans von Marées, nell’agosto del 1879, sollecitato dalla figlia Clara e dal genero, lo scultore Peter Bruckmann. Essi l’accolsero a Villa Drago, una locanda la cui struttura è ancor oggi esistente in Ischia Ponte e che già in passato aveva ospitato illustri personaggi.

Così ricorda l’artista le sue giornate ad Ischia: «A stento ti potrei dire come trascorro tutto il giorno, come, cioè, ammazzo il tempo. Alle cinque mi alzo e col sole vado allo stabilimento termale dove già aspettano una ventina di persone, quasi tutte vecchie, con grucce e che parlano una lingua che non capisco. Prendo un caffé nero e aspetto circa un’ora prima di fare il bagno. Nella vasca, che per me è troppo piccola, mi annoio maledettamente e guardo continuamente l’orologio appeso alla parete per vedere se è passata la mezz’ora: cinque minuti nella vasca mi risultano più lunghi di un’ora fuori. Alle sette, o anche più tardi, questa noia finalmente finisce e vado prima a fare colazione in un bar vicino con caffé nero senza latte (uno così cattivo non si trova da nessuna parte) ed un panino raffermo e poi alla spiaggia, ove mi siedo all’ombra di uno scoglio, guardo il mare e le navi passare e penso a mille cose.


Verso le undici comincia a fare troppo caldo. Allora me ne ritorno a casa per guardare di nuovo il mare o scrivere una lettera, come in questo momento. Alle dodici arriva il signor Schmidt e, presto, anche Gaetano col pranzo: un pezzo di carne fredda, frutta, pane e vino, che, per fortuna, quest’anno è eccellente». Böcklin ad Ischia non dipinse, ma prese appunti che, a Firenze ed in Svizzera, avrebbe poi utilizzato per alcune sue opere fondamentali quali “L’isola dei morti”, “La famiglia dei Tritoni” e, forse, “Odisseo e Calipso”.


“L’isola dei morti” è una sintesi del Castello Aragonese, un antico maniero non lontano dall’alloggio del pittore e dal vecchio cimitero di Sant’Anna. La struttura dell’isolotto raffigurato è, infatti, molto simile a quella del Castello Aragonese ed alcuni elementi paesaggistici dell’epoca come, ad esempio, un’apertura-balcone del Castello che guarda l’isola maggiore dal lato sinistro e due leoni di terracotta posti all’ingresso del cimitero, sono decisamente assimilabili a quelli nell’opera di Bocklin.


Anche la scena funebre è verosimilmente ispirata all’antica usanza ischitana di trasportare i defunti, col prete ed il becchino, dalla chiesa, che anticamente affacciava sul mare, al cimitero su di una barca a remi. “La famiglia dei Tritoni” fu ispirato a Böcklin dall’incontro con la famiglia Dohrn. Infatti Anton Dohrn, eminente scienziato, fondatore dell’ Acquario di Napoli nonché della sezione distaccata dello stesso ad Ischia, amava prendere il bagno marino alla spiaggia di Villa dei Bagni, nei pressi di Porto d’Ischia, in compagnia delle figlie. Molto probabilmente, fu in tale contesto, che ispirò a Böcklin, con la sua prestanza fisica e la folta barba, la scena del quadro.

Così ricorda lo studioso Paul Buchner, nel suo libro “Gast auf Ischia”, uno dei quadri del pittore svizzero: «Così questo famoso quadro rappresenta una delle rocce della colata dell’Arso rotolate fino al mare, testimonianza dell’eruzione di Fiaiano del 1301 circa, su cui il barbuto Anton Dohrn solleva alto in aria il figlio Boguslav di cinque anni e, vicino a lui, come una Nereide, sta, languidamente, Susa, una graziosa cugina della moglie. Anche il non meno famoso quadro “Toteninsel”, di cui esiste una serie di varianti, deve ad Ischia la sua origine. Sebbene si sia spesso voluta notare una rassomiglianza con l’isoletta di Pontikonissi, vicino a Corfù, è certo che Böcklin non vi si recò mai. Inoltre, ad un compagno di allora, Carlo, un figlio di Anton Dohrn, raccontò delle rassicurazioni paterne relative al Castello Aragonese quale fonte ispirativa del quadro di Böcklin. Nessuno degli storici d’arte che si sono occupati di questo interrogativo si è mai chiesto perchè Böcklin ebbe la stravagante idea di rappresentare sul quadro una barca che porta una cassa da morto sulla scogliera. Tutti loro ignoravano che sull’isola maggiore di fronte al Castello, si trova un cimitero, costruito nel 1836, in occasione d’un’epidemia di colera, che s’arrampica in terrazze dalla riva rocciosa e dove i morti erano portati per mare. Non vi può essere alcun dubbio sul fatto che Böcklin abbia visitato, durante le sue passeggiate ischitane, questo luogo in cui oggi non c’è più nemmeno una croce, inserendolo, fantasticamente, nel mezzo della rupe scoscesa del Castello Aragonese».

Il pittore, dopo essere entrato in stretta amicizia con Dohrn, avrebbe voluto ritrarlo con moglie e figli a ricordo di quel bel periodo, ma l’improvvisa notizia d’una grave malattia del padre lo costrinse a partire immediatamente senza poter realizzare tale proposito. E’ significativo però che poche settimane dopo Böcklin dipinse a Firenze “Toteninsel” e “Tritonen familien”. Nell’ ‘800 Casamicciola era la stazione termale più importante dell’epoca.

Un po’ da tutta Europa, ma soprattutto da Francia e Germania, vi convenivano forestieri per praticare le cure. La qualità delle acque minerali e l’alto livello delle strutture ricettive permisero alla piccola cittadina di divenire un luogo di villeggiatura signorile con una fiorente economia turistica ed una stimolante vita socio-culturale. Tra l’altro giova ricordare il soggiorno casamicciolese di Ibsen, così come che il famoso drammaturgo svedese scrisse ad Ischia gran parte di “Peer Gint”, il suo capolavoro. Questo periodo aureo, però, fu repentinamente e tragicamente interrotto dal violentissimo terremoto del 1883 che ridusse Casamicciola ad una landa desolata.
Tutta Ischia subì un enorme crollo economico e, conseguentemente, anche socio-culturale, stentando a riprendersi da un periodo di completo oscurantismo che durò fino agli anni ’20 del secolo seguente.

In questo periodo buio, tra i pochi coraggiosi che, incuranti del pericolo di nuovi terremoti ed estremamente bisognosi di trovar rimedio ai propri acciacchi, non rinunciarono alle cure termali, giunse ad Ischia, precisamente nel 1905, Emil Nolde (Nolde 1867 - Seebull 1956). Il grande espressionista tedesco venne soprattutto ad accompagnare la moglie Ada, sofferente di gravi malanni articolari e polmonari. La loro permanenza non fu molto lieta, sia per la relativa inefficacia delle cure, sia per la nostalgia materna della moglie, sia, infine, perché pare che l’isola non ispirasse molto l’artista. E’ probabile che Nolde abbia frequentato il poeta e scultore Maltese, che nell’isola di allora era considerato uno dei pochi personaggi di rilievo e la cui casa era divenuta un luogo di ritrovo per intellettuali d’ogni genere. Quali testimonianze della venuta ad Ischia di Nolde non restano che alcune incisioni su legno ed i disegni del suo diario illustrato, tra cui uno raffigurante la chiesa foriana del Soccorso,. Le xilografie, per altro di notevole fattura, raffigurano, due, i coniugi Castaldi, che probabilmente ospitarono i Nolde nelle loro terme, e un’altra il Castello Aragonese che, curiosamente, anche in tale occasione è visto come un luogo lugubre.

Nell’opera, il castello è posto in secondo piano rispetto ad una bambina che sembra un personaggio di Goja e che stringe in una mano, quasi strozzandola, una bambola. Al di sopra di esso si vedono volare inquietanti figure. Tale aspetto drammatico del castello, oltre al “Toteninsel” di Böcklin, evoca pure la rappresentazione cimiteriale d’un Castello Aragonese movimentato dal volo di lugubri uccelli di Eduard Bargheer, un altro pittore tedesco che sarebbe giunto ad Ischia negli anni ‘30. Nel periodo seguente il soggiorno di Nolde, Ischia fu esclusa dal novero delle mete ambite dai turisti, non solo a causa della crisi che seguì il terremoto del 1883, ma anche perché nel 1910, come se non fosse bastato, una violenta alluvione distrusse gran parte del territorio di Casamicciola.

Nel 1921 venne ad Ischia Hans Purrmann (Speyel 1880 - Basilea 1966). Inizialmente il pittore trovò alloggio a Casamicciola, ma il clima freddo e umido del comune pedemontano lo indusse a trasferirsi ad Ischia, ove conobbe il pittore-barbiere Luigi De Angelis (Roma 1883 - Ischia 1966). Purrmann, passeggiando lungo il porto d’Ischia, vide una bottega di barbiere ove, con l’intento di farsi sfoltire un p0’ la barba, entrò.

Qui incontrò De Angelis: figaro, pittore e suonatore di mandolino alle feste di nozze. Vagando con lo sguardo mentre era seduto a sbarbarsi, Purrmann vide un dipinto su carta fissato al muro con del sapone da barba e, incredulo che fosse un’opera dello stesso barbiere che lo stava servendo, volle subito acquistarlo. Nacque così fra i due artisti una grande amicizia e Luigi aiutò l’amico tedesco a trovare il primo alloggio ad Ischia Porto, presso villa “Laganà”, oggi non più esistente.

Dopo l’ultima guerra, per molti anni Purrmann abitò presso la locanda Macrì, dipingendo, in tale periodo, molte vedute isolane e, in particolare, del porto. Così De Angelis descrisse nel suo diario l’incontro con Purrmann: «Dopo circa tre mesi che dipingevo, capitò, a farsi sfumare la barba, un signore che iniziò a contemplare un mio dipinto rappresentante il Castello d’Ischia, con barche e figure, attaccato alla parete sopra lo specchio di fronte alla poltrona su cui era seduto. Dopo che ebbi finito di servirlo, mentre saldava il conto, costui mi chiese: ‘Chi fare questi quadri?’.Subito risposi: ‘Li faccio io’. ‘No possibile, lei barbiere, no pittore!’. Replicò altrettanto prontamente, stentando a credermi, sebbene quanto gli avevo detto fosse stato confermato da vari clienti. Alla fine, convintosi, mi chiese se volevo vendere il quadro in questione e come volevo esser pagato. Quest’ultima domanda mi imbarazzò e, non sapendo come regolarmi, mi rivolsi al mio caro amico, cliente ed estimatore, il pescatore Domenico Di Meglio, che, avendo assistito a tutta la scena, mi suggerì di chiedergli 200 lire. Il cliente restò gioiosamente meravigliato della modicità del prezzo, mise mano al portafoglio, mi pagò, ritirò il quadro e, ringraziandomi affettuosamente, mi disse: ‘Io sono il pittore Purrmann, di Germania».

In quel periodo Hans Purrmann era molto famoso perché aveva vissuto a lungo a Parigi (dal 1904 al 1914), nella città che allora poteva essere considerata una grande officina di più o meno importanti e talvolta rivoluzionari mutamenti culturali, ove con Levy e Moll aveva fondato la celebre “Scuola di Parigi”. Il pittore fece conoscere De Angelis in Francia e in Germania. La naïveté era molto in voga nel primo novecento, soprattutto perché aveva notevolmente influenzato il Cubismo di Picasso e il Fauvismo di Matisse. A Parigi Purrmann parlò d’uno straordinario pittore naïf conosciuto ad Ischia ai fratelli Eugène e Leonide Barman, profughi russi, pittori e galleristi tra i più in voga del momento. I Barman, fiduciosi della competenza di Purrmann, tosto partirono per Ischia con lo scopo di conoscere De Angelis e, restati anche loro entusiasti della sua pittura, senza indugi gli organizzarono una grande mostra presso la “Galerie Pierre”, di loro proprietà. Estremamente significativo è il fatto che, nella stessa galleria, la mostra immediatamente precedente quella di De Angelis fosse stata dedicata a Kandinskj.

Il successo del “Barbiere” fu tanto clamoroso che il poeta André Salmon, teorico del Cubismo, dedicò a De Angelis un lusinghiero articolo sulla rivista letteraria “L’intransigeant”, in cui sosteneva che la naïveté del pittore d’Ischia era più autentica di quella del “Doganiere” Rousseau, ispirata da quadri esposti al Louvre: «De Angelis n’a jamais passé par aucune académie, et son art est plein de naïveté. Ce n’est pas celui de Rousseau. Notons de passage que cette fameuse naïveté ne fut jamais ce que nous admirâmes dans Rousseau, quand, au contraire, nous étions souvent subjugués par la volonté de ce simple reusissant, par des efforces medités à se hausser aux plus fiers sommets de l’art savant; par l’étonnante intelligence plastique de cet ignorant trouvant tout seul, au Louvre, le seul maître dont il eut besoin, pour, en outre nous, le faire mieux comprendre : Paolo Uccello». Purmann, sebbene fosse stato influenzato dalla scuola di Matisse, di cui era stato anche allievo, espresse una personalità cromatica e, soprattutto, grafica tale da essere stimato come uno tra i maggiori espressionisti del suo tempo e da scandalizzare i fautori della canonicità pittorica vigente quali ad esempio molti pittori di scuola napoletana che, al cospetto dei suoi paesaggi ischitani, restavano a dir poco perplessi.

Il fenomeno De Angelis non fu una meteora e la sua qualità artistica gli valse l’invito a partecipare più volte alla Biennale di Venezia ed alla Quadriennale di Roma, nonchè l’interessamento di illustri letterati quali, ad esempio, Pier Paolo Pasolini che così scrisse di lui: «...davanti alle sue figure, che spesso non sono che una goccia lucente di biacca schiacciata miseramente con il pennello contro un fondo appena macchiato di grigio, parleremmo quasi di una “povera metafisica”. Si veda ad esempio un quadro rappresentante una festa paesana che sparge la sua esigua folla intorno ad un gran carro addobbato di fiori; ebbene, qui il mezzo pittorico è dei più miseri, l’atmosfera nasce quasi dalla “trascuranza” del pittore, dalla confusa e povera scelta dei colori. E quei fiori, poi, mucchietti di pasta vivace appiccicati in rilievo alla piattezza grigia e quasi acquerellata della tela, creano un’atmosfera tristissima e non terrena, simile a quella ottenuta appunto nella pittura metafisica di un De Chirico, ad esempio, che, con altri mezzi, analogamente non propriamente pittorici, (ma ciò non vuol dire, talvolta, non poetici) ricercava un “effetto” poetico». Anche Raffaello Causa, studioso d’arte antica, non trascurò di recensire De Angelis: «La vitalità formale dei quadri migliori di De Angelis è proprio nel drammatico enuclearsi di un linguaggio che, per forza interna e senza alcun ausilio contingente, tende a farsi formalmente compiuto in pienezza d’espressione. “trovare” la pittura.

Creare dal nulla una grammatica ed una sintassi, per modeste ed elementari che siano, sempre rigorose ed espressive. Dipingere come parlare, ma un parlare ispirato, convincente, serio, con argomentazioni limitate, ma ineccepibilmente concrete». Incuriositi dall’interesse di Purrmann, molti intellettuali furono attirati in questa piccola isola mediterranea, fonte ispiratrice di animi sensibili ed intelletti raffinati. Lo scrittore Norman Douglas, che nel suo “Summer islands” descrisse le bellezze e i costumi d’Ischia, vi soggiornò per molti mesi e Paul Buchner, eminente biologo, vi si stabilì definitivamente, continuando quì quei suoi studi di microbiologia che lo resero famoso nel mondo scientifico e, tra l’altro, contribuendo alla riscoperta ed alla diffusione dell’opera di Giulio Iasolino, il protomedico che, a cavallo tra il XVI ed il XVII secolo, scoprì le portentose proprietà terapeutiche delle acque termo-minerali abbondantemente presenti nel sottosuolo isolano.

Particolarmente soggiogati dal fascino delle bellezze naturali d’Ischia furono i pittori Werner Gilles ed Eduard Bargheer, che prima iniziarono a villeggiare sull’isola e poi, alla fine del secondo conflitto mondiale, vi si trasferirono definitivamente. Proveniente dal sud della Francia con gli amici di Düsseldorf Curt Georg Becker e Josef Pieper, Werner Gilles (Rheydt 1894 - Essen 1961) arrivò per la prima volta ad Ischia nel 1931 e ne rimase folgorato. Una volta diplomatosi all’Accademia delle Belle Arti di Kassel, dal 1914 Gilles divenne allievo di Ljonel Feininger al Bauhaus di Weimar e, all’inizio degli anni trenta, ricevuta una borsa di studio dalla Fondazione “Villa Massimo”, venne per la prima volta a Roma ed in Italia. “Sguardo su Sant’Angelo”, raffigurante il piccolo borgo ischitano, frazione del Comune di Serrara Fontana, immerso nella violenta ed abbagliante “luce del sud” (inizialmente ricercata invano con l’olio e finalmente “catturata”, verosimilmente anche con l’ausilio delle geniali intuizioni di Klee, con l’acquarello), fu il primo paesaggio ischitano di Gilles. Egli tornava puntualmente a Sant’Angelo per festeggiare la ricorrenza pasquale con la gente locale, da cui era stato oramai adottato. Viveva semplicemente in una camera ammobiliata e, dopo il lavoro, spesso si concedeva una passeggiatina in paese, intrattenendosi poi al bar, ove beveva un bicchiere di vino rosso o di birra e incontrava gli “Ospiti d’Ischia”, Purmann dal Porto, Bargheer da Forio, Hans Joachim Bleusted, Alfred Hentzen, Werner Heldt con cui aveva un rapporto quasi fraterno, ed altri tra cui artisti ed intellettuali di più o meno chiara fama. Così Heldt, berlinese del 1904, viene ricordato da alcuni amici: «Di sera ci sedevamo per lo più al tavolo di Gilles, da Guido. Era un vero piacere discutere con lui, perché era saggio e rispettava le opinioni degli altri. I suoi pensieri ritornavano di continuo a Goethe che invadeva la sua anima.

Gli piacevano particolarmente i francesi Rimbaud e Lautréamont, mostrando una predilezione per la cultura francese in generale. Parlava con lentezza, con la bocca spalancata; un lieve imbarazzo gli impediva talvolta di parlare con scioltezza. Specialmente quando raccontava dei demoni che tanto lo tormentavano nei suoi sogni, o della paura degli uomini, della libertà e della responsabilità. Allora nei suoi occhi si spegneva l’amabile brillìo; essi affondavano nelle loro cavità e diventavano scuri. Si sentiva che la sua anima era malata. Quando formavamo un gruppo più nutrito si sentiva molto soddisfatto. Allora recitava con passione poesie, raccontava barzellette, aneddoti, e intonava canti militari». Proprio Heldt, l’amico più caro, improvvisamente, nella notte tra il 3 ed il 4 Ottobre 1954, morì: «Qui si è compiuto un grande destino. Il nostro buon pittore Heldt è stato ucciso da un colpo apoplettico. Il poeta Stefan Andres era venuto a trovarci qui e la sera avevamo festeggiato allegramente. Il pomeriggio successivo lo abbiamo trovato morto nel suo letto. La morte era stata tra di noi ed aveva preferito Werner Heldt a tutti noi».

Così Gilles scrisse a Purrmann il 6 ottobre, e l’indomani, con gli amici e gran parte dei paesani, accompagnò l’amico al cimitero di Sant’Angelo, ove a tutt’oggi riposa. Dopo la morte di Heldt, Gilles s’incupì e, a testimonianza di tale evoluzione del suo stato d’animo, anche le sue opere, come in particolare un ciclo di dodici acquarelli dedicati all’amico scomparso ed intitolato “Tombe pagane sul mare”, sebbene sempre fondate sul simbolismo ed il mistero, acquisirono una connotazione meno fantastica, più realista e permeata di rassegnato fatalismo, espressa, soprattutto, da una perdita decisa della solarità cromatica. Non si può dir quanto ma, sicuramente, la melanconia contribuì a render sempre più cagionevole la salute di questo grande artista, tanto da costringerlo alla semi immobilità, e ad accelerare il suo crepuscolo.

Così si legge nel suo diario senile: “Alle sei passeggio un poco e alla sera bevo il mio boccale di birra nella piazza. La luce cangiante ed il sole che tramonta sono di grande magia, e poiché io non vado più oltre, traggo tutti gli stimoli dal gioco delle luci, gioco che al tramonto è nel momento migliore”. Nel ‘61, il 22 giugno, Gilles morì. Eduard Bargheer (Amburgo1901 - Amburgo1979) venne la prima volta ad Ischia nel 1935, ritornandovi nuovamente nel ‘36, dopo essersi fermato prima a Berna, dove conobbe Paul Klee che studiava musica presso un suo prozio e poi a Firenze, presso la pensione delle sorelle Bandini, ove fu in contatto con altri artisti tedeschi, molti dei quali profughi ebrei. Le intimidazioni naziste al gruppo “Secessione”, di cui era membro, ed il conseguente scioglimento dello stesso, l’imposizione, da parte dei dirigenti del circolo nautico di cui era socio, di cambiare il nome “Hans Cartorp”, ispirato ad un personaggio di Mann, alla propria barca a vela, la precipitosa fuga in Portogallo dell’amica pittrice Gretchen Wohlwill e l’emarginazione di tanti artisti a causa delle loro origini ebraiche furono, per Bargheer, segnali sempre più inequivocabili dell’opportunità d’espatriare, come s’evince da uno stralcio della sua corrispondenza con la Wholwill: “Il fatto che in questo paese sia potuto accadere tutto ciò che oggi vediamo mi fa venire i brividi”.

La decisione di stabilirsi ad Ischia, quella piccola isola del Golfo di Napoli che tanto lo aveva affascinato sin dalla prima volta in cui c’era stato, fu presa da Bargheer nel 1940, quando, tornato in Germania per delle mostre, si rese definitivamente conto del baratro in cui stava precipitando il suo paese. «Ogni mattina, quando apro le persiane e guardo Sant’Angelo», scrisse, «sono colto sempre dalla stessa gioiosa emozione: questo posto esiste davvero, non me lo sono sognato. Domani saranno dieci giorni che sono qui e ho la sensazione che avranno una importanza determinante per tutta la mia vita futura». La bellezza dei luoghi, la semplicità e la saggezza della popolazione indigena, la luce, il mare del sud erano divenuti la fresca ed abbondante fonte ispirativa che avrebbe dissetato la creatività di questo raffinato pittore fino alla fine dei suoi giorni.

Ad Ischia, dopo brevi periodi di soggiorno al Porto e a Sant’Angelo, Bargheer scelse come definitivo ritiro Forio, ove la vita era più movimentata e la luce diurna, particolare e più durevole, gli consentiva di lavorare fino a sera. Un’appassionata testimonianza dell’amore di Bargheer per Forio fu quella di Carlo Levi in occasione d’una mostra alla galleria “L’Obelisco” di Roma nel 1949: «Soprattutto mi piacque il modo con cui parlava di Ischia, dell’Epomeo, delle cave, delle grotte, dei pescatori, degli agresti che dividono tra loro il pane e riposano all’ombra dei fichi, di quel mondo di poveri, di solitudine e d’incanto, dove la bizzarra capra è regina e il mare e la terra sono piene di presenze quotidiane. Eravamo in piena guerra e questo giovane tedesco pensava e parlava come se la ferocia, la divisione e l’assurda follia non esistessero e non lo toccassero; né si lagnava di quanto egli stesso ne avrebbe potuto soffrire (era con noi un suo amico carissimo, il vecchio e valoroso pittore tedesco Rudolf Levy, che pochi mesi dopo i nazisti avrebbero trucidato in un ignoto campo di concentramento). Pronto e spregiudicato, viveva visibilmente in un mondo libero, lasciando intuire che il suo amore per Ischia, ovvero per il simbolo di tale mondo, era per lui qualcosa di più della tradizionale passione degli uomini del Nord per le terre felici del Sud, per i Südfrüchte, per Mignon, per la luce abbagliante e colorata».

Morì il primo agosto in Germania. Gli amici di Forio attesero invano il suo ritorno. Il nazismo, oltre a perseguitare i “non ariani”, considerandoli “arte degenerata”, bandì tutte le avanguardie artistiche in nome d’un neoclassicismo becero, volto unicamente all’esaltazione del regime. Il clima d’emarginazione, se non di vera e propria persecuzione, indusse molti pittori ad espatriare, come nel caso di Bargheer, Gilles e Purrmann, in paesi meno intolleranti, quali Francia ed Italia, oppure a ritirarsi, come nel caso degli espressionisti Nolde, Barlack, Kollwitz e Beckman, in una sorta di “emigrazione interna”, nel tentativo di salvaguardare l’incolumità propria e delle proprie opere. Tra gli artisti che si rifugiarono in Italia giova che vengano ricordati: Schluter, Borchardt, Andres, Newmann, Tawegner, Hettner, Klaus Mann e Steiner, come non solo giova, ma è anche un dovere etico ricordare l’aiuto di alcuni intellettuali napoletani, quali Paolo Ricci, Buchicco Giordano e Carlo Bernari, ad alcuni di questi profughi stabilitisi in costiera sorrentina, tra Vietri e Positano. Rudolf Levy (Stettino 1875 - Auschwitz 1944) venne ad Ischia tra il ‘38 ed il ‘43, alternando il suo soggiorno isolano con brevi visite ad amici a Firenze e Positano. Era un fuggiasco disperato che, all’entrata in vigore delle leggi razziali, mentre era a Firenze, venne arrestato e, successivamente, deportato ad Auschwitz e giustiziato.

Anch’egli, come Purrmann, allievo di Matisse, dipingeva, inizialmente, su di una struttura solida con colori forti, violenti e lussureggianti, risentendo non poco dell’influenza di Cézanne. Successivamente, rispecchiando la sua vicenda, le opere di Levy acquisiranno toni cromatici decisamente più melanconici e dai suoi paesaggi scomparirà l’uomo, entità, oramai, al cospetto dei semidei, inutile, superflua, senza valore. Da sterminare. Karl-Sohn-Rethel (Düsseldorf 1882 - 1966) scoprì Positano e, col suo allievo Kurt Craemer, vi risiedette a lungo, recandosi spesso ad Ischia, ove amava trascorrere qualche mese e aveva modo d’incontrare Bargheer, Gilles, Heldt ed altri intellettuali. Dell’esperienza umana e pittorica di Sohn-Rethel ad Ischia e Positano così ci rende conto Dieter Hoffmann: “Sohn-Rethel dipingeva contro la facile bellezza. Dava ai suoi quadri una tonalità di fondo grigia e marrone, colori rocciosi e “terragni”, introduceva qua e là un rosa o un turchese. Dipingeva naturalmente. La pittura naturale ha in sé classicismo e realismo insieme. I suoi gruppi di pescatori non sono idilliaci, né lo sono i suoi contadini e i suoi carretti trascinati dai somari. Ma le persone sono sane e quindi felici, in accordo con il mare e la pace, la terra e la vendemmia. Le sue opere respirano un’aria fuori dal tempo. Di solito non vi segnava la data, né le firmava”. I suoi chiaro-scuri sono la sintesi della simbiosi culturale tra Meridione d’Italia ed Europa centro-settentrionale. Kurt Craemer (Saarbrücken 1912 - Paestum 1961), dopo esser stato in Grecia, invitato da Heldt, venne ad Ischia nel ’34.

Anche lui, sedotto dalla natura dei luoghi e dalla semplicità degli isolani, decise di stabilirsi definitivamente in Italia. Fu pittore di gran talento, colto, serio e con un innato senso estetico; fu artista che seppe crescere e le variazioni nel tempo delle sue opere, formali e di contenuto, sono il riflesso cristallizzato della sua crescita spirituale ed intellettuale. Oltre che pittore, Craemer fu anche un geniale illustratore e, tra l’altro, l’autore delle immagini dei racconti verghiani “Vita dei campi”. A Positano, ove si stabilì dopo esser stato ad Ischia, fondò una scuola di pittura. Non fu mai seriamente perseguitato dal pregiudizio razziale nazi-fascista solo perché paraplegico e, perciò, inabile al lavoro in campo di concentramento. Max Peiffer Watenphul (Weferlingen 1896 – Roma 1976), tedesco, venne la prima volta in Italia nel ’21, venticinquenne, a studiare la pittura Rinascimentale, poi tra il ’31 ed il ’32, vinta una borsa di studio, visse a Roma a Villa Massimo e infine, nel ’35, essendo state le sue opere considerate espressione di “arte degenerata” da reprimere con la confisca e la distruzione e avendo perciò deciso di lasciare la Germania, si trasferì definitivamente in Italia, tra Cefalù ed Ischia. La “mediterraneità” fu per Watenphul fonte copiosa di energie creative e, secondo molti, anche lo sfondo d’un sostanziale rilancio qualitativo della sua opera. Le sue tele si schiariscono senza mai assumere la violenza cromatica di quelle di Purrmann, il suo tenue realismo si contrappone al simbolismo di Gilles, i suoi disegni si semplificano, acquisendo intensità.

Fu amico di De Pisis. Come il pittore ferrarese, non apponendo o raschiando il colore, amava lasciar vuote alcune zone di tela. Ischia ospitò per un breve periodo anche Adolf Fleischmann (Esslingen 1892 - Stoccarda 1968), ma poco si conosce dell’esperienza isolana di questo artista estremamente raffinato, la cui pittura risente dell’influenza delle avanguardie storiche e, in particolare, dell’astrattismo geometrico di Mondrian. Tra i pochi artisti italiani d’un certo rilievo che furono ad Ischia nel ‘900, vanno ricordati soprattutto Giuseppe Casciaro e Giovanni Brancaccio. Casciaro (Ortelle 1863 - Napoli 1945), condizionò l’opera di molti pittori napoletani e di alcuni di Ischia come Vincenzo ed Edoardo Colucci, Matteo Sarno, Federico Variopinto e l’adottivo Nicola Fabbricatore, sebbene altri isolani, in particolare Luigi De Angelis ed Aniellantonio Mascolo, ben poco risentirono della sua influenza. Casciaro, napoletano d’adozione, era d’origine pugliese. Soprattutto d’estate, veniva spesso ad Ischia Ponte e, in compagnia dei figli e di molti artisti locali, amava fare il bagno e prendere il sole presso la spiaggia di Punta Molino. Era un pittore già affermato, al punto d’esser stato insegnante delle principesse reali.

La sua predilezione per il “paesaggismo”, sull’esempio dei coetanei Esposito e Pratella, fu elemento di rottura tra la sua opera e quella dei suoi maestri Giacchino Toma e Stanislao Lista. Amava molto dipingere le pinete dell’Arso ed il Castello Aragonese. In gioventù aveva prediletto la pittura ad olio, ma successivamente fu affascinato dalla pittura di Degas, che aveva avuto modo d’ammirare in occasione di due inviti, rispettivamente nel 1892 e nel 1896, ad esporre le proprie opere a Parigi, presso la galleria Goupil. Desideroso di approfondire e sviluppare il nuovo approccio pittorico alla realtà ed il valore e la grazia del “tocco di colore” proposti dall’Impressionismo, decise, per meglio raggiungere tale scopo, di adottare il pastello, suscitando subito un notevole apprezzamento da parte della critica. Così scriveva di Casciaro il poeta Salvatore Di Giacomo: “Un pastello di Casciaro ha del Bach e del Mozart; talvolta è anche tragico e profondo come una commossa voce beethoveniana. Quell’eleganza deliziosa, questo spirito, questo gusto sono rari; quella forza piacevole e sicura non vi opprime, ma vi trascina. E la voce di questo adorabile artista ha netti gli accenti tra la foga ed il respiro, l’impeto e la tenerezza, un grido e un sussurro …” Matteo Sarno risentì molto dell’influenza di Casciaro, adottando anch’egli la tecnica del pastello e dipingendo vedute, tra l’altro anche deliziose, d’interni, che furono molto apprezzate dalla borghesia napoletana. Federico Variopinto e Vincenzo Colucci, due giramondo, solo inizialmente furono condizionati da Casciaro, proponendo in seguito una pittura più timbrica ed essenziale. Sulle opere di Colucci, poi, certamente esercitarono una sostanziale influenza Van Dongen e De Pisis, come si evince soprattutto dall’impronta del maestro ferrarese sulle nature morte del pittore ischitano.

Eduardo Colucci, fratello di Vincenzo, fu autore “dilettante” di opere pittoriche genuine e piacevoli. Fabbricatore seppe superare il fascino esercitato da Casciaro al punto da rigettarne, almeno in parte, la filosofia pittorica, realizzando, attraverso opere più violente cromaticamente e più essenziali, una pittura per molti versi più solida e contemporanea di quella del maestro. Brancaccio era fiorentino, visse a Ischia Ponte e poco si sa della sua vita se non ciò che ci ricorda il suo allievo ed amico Pasquale Mazzella: “Il maestro venne ad Ischia verso il 1930 da Firenze, dove era molto stimato come ritrattista presso la ricca borghesia. Venendo a Napoli e poi ad Ischia scoprì la propria vena paesaggistica. Era un uomo di media altezza e con un viso piuttosto pallido ornato da un po’ di barbetta. Visse sul Castello Aragonese ed io lo aiutavo, con Vincenzo Funiciello, Saverio Romolo e Carlo Balestrieri, a preparare i colori. Usava solo colori a pastello mescolati a bile di bue fungente da collante. Disponeva di oltre cento colori, tutti preparati artigianalmente. Non usava pennelli, proibendo anche a noi il loro utilizzo, e dipingeva con degli stecchini che costruiva personalmente. Prima di iniziare un quadro studiava a lungo la luce del paesaggio che desiderava dipingere e tutte le sue variazioni. Dipingeva all’alba e al tramonto. Non firmava i suoi quadri, sostenendo l’indipendenza del valore dell’opera d’arte dall’autore. Durante la giornata, passeggiando, raccoglieva cardi di cui era ghiotto. Molti furono i personaggi isolani ritratti dal quotato pittore fiorentino.

Spesso gli riconoscevano la propria gratitudine invitandolo ed aiutandolo nella ricerca dei materiali necessari alla preparazione dei colori. Lasciò Ischia nel ‘36 per Napoli, ove morì investito da un tram mentre tornava a casa. Brancaccio aveva una personalità molto spiccata ed una socievolezza ai limiti del misantropismo. Era estremamente severo, sia con gli altri pittori, ragion per cui disprezzava i dilettanti, che, soprattutto, con se stesso. Come paesaggista era molto vicino ai post-impressionisti, mentre nei ritratti era, piuttosto, un divisionista. Un altro artista che fu ad Ischia e di cui si sa molto poco è il rumeno Jon Pletos (Chisinau 1900 - Ischia 1938). Ucciso da un tumore al cervello, recitò una parte breve ma intensa nella scena umanistica ed artistica del ‘900 ischitano. Malgrado le sue idee rivoluzionarie, era un uomo tranquillo e ben voluto dalla gente del posto. Amava la vita all’aria aperta. Girava molto cercando di cogliere una luce. Non quella solare di Gilles o Bargheer, ma un irresistibile soffio di luce lunare. Una luce metafisica. Misteriosa. Riposa ad Ischia nella tomba di famiglia del pittore Mario Mazzella, suo amico ed allievo.

Ospiti di Ischia dopo l’ultima guerra furono Curzio Malaparte, in verità ad Ischia in domicilio coatto, e Pablo Neruda. Lo scrittore toscano risiedette a lungo presso la pensione “La Floridiana” ad Ischia Porto, sebbene durante il suo soggiorno si fosse innammorato di Villa Fassino a Lacco Ameno e, sbattendo contro l’ostruzionismo delle famigerate baronesse De Biasi, intermediarie dei Fassino, avesse tentato invano di acquistarla. E’ verosimile che la delusione per il mancato acquisto della residenza a cui tanto teneva sia stata un motivo sostanziale, se non il principale, per cui Malaparte decise di lasciare Ischia. Neruda venne ad Ischia con sua moglie Matilde sofferente d’artrosi. La coppia soggiornò per un certo periodo a Sant’Angelo, recandosi, tra l’altro, spesso ad Ischia Ponte ove la signora si compiaceva di posare per Aniellantonio Mascolo.

“Mascolo credeva nella sua terra nativa a tal punto”, scrive Domenico Rea, “da trasformare questo sentimento in vocazione d’artista e, nello stesso tempo, in ultimativo significato dell’esistenza. Questo evento, consueto ai tempi della pittura classica, all’epoca di Mascolo era già divenuto raro. In lui si ristabilisce questa corrispondenza che al suo fondo ha sempre l’iterittenza religiosa. Ovviamente si tratta di un dio panico, di una presenza diffusa che sorregge l’opera mascoliana. Ogni suo personaggio è qualcuno della terra d’Ischia, ma anche qualcuno che ha dentro di sé, e lo irraggia, un sentimento che si direbbe di ‘beato dell’esistenza’ nel senso più mite, giocoso e francescano della parola. Il sentimento, l’armonia, quel non so che d’infinito che nei secoli scorsi ha sempre espresso Ischia e che è andato in gran parte perduto, nella raffigurazione complessiva di Mascolo la si ritrova in pieno. Ed è in questo senso che l’opera di Mascolo è importantissima”. Parteciperà a due Biennali veneziane e a due Quadriennali romane. Vincerà negli anni ’50 il Premio Italia, Istituito dal Presidente della Repubblica Einaudi. Le figure delle sue incisioni, statiche, ieratiche, in perfetto equilibrio con le piccole grandi cose della quotidianità, ricordano quelle di grandi maestri del passato.

Chardin, Seurat. Forse anche di più. Brodskj e Montale, futuri premi Nobel per la letteratura, furono anch’essi a lungo ad Ischia Ponte, presso Villa Malcovati, lasciando come ricordo due splendide poesie dedicate all’isola d’ Ischia. Nell’ambito della realtà artistico-culturale di allora, più d’una citazione merita la galleria “Il Centro” di Renato Bacarelli e Luigi Pilato ad Ischia Porto, per la sorprendente qualità degli artisti, da Sironi a Rosai, da Guttuso a Waschimps, che in essa esposero le loro opere. Luchino Visconti s’innamorò di Ischia sin dalla prima volta che vi venne. Inizialmente alloggiava in un albergo del Porto, poi fittò una casa, sempre al Porto, in località Punta Molino, presso i già ricordati Edoardo e Vincenzo Colucci, intorno a cui s’era creato un piccolo cenacolo di artisti provenienti da tutto il mondo, infine, a metà degli anni ’50, acquistò una meravigliosa villa a Forio, “La Colombaia”, ove ideò e pianificò molti dei suoi lavori teatrali e cinematografici, che dopo la sua morte sarebbe diventata la “Fondazione Visconti”. All’alba degli anni ’50, a Lacco Ameno, a nord dell’isola, l’archeologo George Buchner, figlio di Paul, scopre Pithecusa, una delle più antiche colonie greche, portando tra l’altro alla luce un vaso dell’ottavo secolo a.C. recante su di sé un’iscrizione tratta dall’Iliade. E’ la Coppa di Nestore. Carlo Ferdinando Russo tradurrà quell’iscrizione.

Il più antico documento in lingua greca rinvenuto nella Magna Grecia. A metà dello scorso secolo, in quest’isola di gente ancora semplice e primitiva, contadini e pescatori immortalati da Aniellantonio Mascolo e Gabriele Mattera, irruppe il cinema. I primi film girati ad Ischia sono quelli diretti da Luigi Zampa (“Campane a martello”) e De Robertis (“Il mulatto”). “Il corsaro dell’isola verde”, film d’azione a colori con Burt Lancaster ed Eva Bartok, prodotto dalla Warner Bros, che segnò l’inizio della folgorante carriera di Ken Adam (vincitore di due premi Oscar per la scenografia dei due film di Kubrick “Dottor Stranamore” e “Barry Lindon”), aiutò non poco l’economia di Ischia, esportando il fascino della sua mediterraneità in tutto il mondo. Bellissimo fu “In pieno sole”, film di René Clement, con Alain Delon e Marie Laforet. Tratto dal giallo omonimo di Patricia Highsmith, avrà un remake nel 2002, girato, sempre ad Ischia, da Antony Minghella e titolato “Il talento di mister Ripley”.

Tra gli altri film realizzati ad Ischia sono certamente da ricordare “Cleopatra” per la travolgente passione che, in quell’occasione, era il 1963, scoppiò tra Liz Taylor e Richard Burton e “Cosa è successo tra mio padre e tua madre”, di Billy Wilder, per l’ indimenticabile interpretazione di Jack Lemmon. L’arrivo di Rizzoli ad Ischia rappresentò un volano per la crescita economica e culturale dell’isola e, in particolare, del comune di Lacco Ameno. Il grande editore e produttore milanese fece costruire alberghi, impianti sportivi e strutture sanitarie, diede lavoro a molti ischitani e, in modo quasi profetico, indicò il percorso da seguire per giungere ad un organico sviluppo dell’isola in ambito turistico. D’altra parte il grande rilievo cinematografico che ebbe Ischia a quei tempi, in gran parte per merito di Rizzoli, s’inseriva perfettamente in un contesto di rilancio turistico per la possibilità sia di esportare le immagini isolane attraverso il grande schermo sia, attraverso il “Premio Epomeo” di cinematografia, di calamitare su Ischia l’attenzione dello “show-business” e dei più famosi attori e registi dell’epoca come, forse su tutti, Charlie Chaplin.

Nella primavera del ’48, con Chester Kallman, invitato da alcuni amici, venne ad Ischia, alla Pensione “Nettuno” di Forio, W. H. Auden. La scoperta dell’isola fu per il poeta inglese così entusiasmante da far divenire quella che sarebbe dovuta essere solo una breve vacanza la sua abituale villeggiatura estiva per dieci anni. Elesse Ischia e, in particolare, Forio, polarizzando sull’isola l’attenzione del mondo culturale, suo luogo “altro” in cui ritemprare spirito e corpo stressati dalla frenesia di New York, ovvero della città ove risiedeva sin da quando, prima dell’inizio dell’ultimo conflitto mondiale, aveva ottenuto la cittadinanza americana. Pochi notabili clerico-borghesi dominavano, dal basso del loro presunto alto lignaggio, la scena isolana dell’ultimo dopoguerra. Ad essi si contrapponeva la stragrande parte della popolazione, schiacciata dall’incoscienza dell’importanza d’una propria genuina identità consolidatasi nel tempo e basata sul lavoro nei campi e in mare, il culto dei Santi e tante piccole e grandi tradizioni. Auden amò quest’identità fino al punto di fondersi col “foriano” ed adottarne lo “style of life”.

Ciò gli fu anche possibile per la scarsa notorietà di cui godeva in quella remota isola mediterranea, ancora estranea alla ribalta internazionale. Solo il conferimento del “Premio Feltrinelli” permise ai locali di subodorare l’importanza di quell’ospite particolare che giocava a mimetizzarsi tra loro. Un anno dopo Auden vennero ad Ischia, accasandosi a Punta Caruso, William Walton e Susana, la sua splendida moglie sudamericana. Nel suo rifugio foriano il maestro inglese, già famoso per la “Façade”, scriverà l’inno per il matrimonio di Elisabetta II e la regina, per meriti artistici, lo nominerà baronetto.

La sua casa, che vide ospiti illustri come Lawrence Olivier e Maria Callas, oltre ad avere uno stupendo giardino, tra i più belli d’Italia, è oggi una fondazione per giovani musicisti retta direttamente dal principe Carlo d’Inghilterra. «Non ricordo», scrive Bernard Berenson, «di aver mai visto nei paesi dove sono stato un posto con più varia e più naturale bellezza di quella che ci offre l’isola d’Ischia. Due giorni fa siamo stati con i Walton alla Punta Caruso, non distante dalla loro casa, e rare volte mi son sentito commosso a tal punto dalla veduta del mare e dell’orizzonte lontano. Le rocce e i massi frastagliati e ammonticchiati su, fin verso le cime dell’Epomeo, pare che ci chiudano intorno come in una conca. E giù in fondo i dirupi, i precipizi e le grotte nascoste dai mirtilli e gli ulivi selvatici. Spettacolo numenale come sul Capo Circeo, sulla strada da Alabanda ad Alicarnasso, a Figalia e in qualche altro luogo sacro».

Forio vide l’arrivo, tra il ‘53 ed il ’56, di Herb List ed Henry Cartier-Bresson per una serie di ritratti d’artisti ed intellettuali, tra cui Auden, Gilles, Bargheer e Tchelitchew, che soggiornavano tra Forio e Sant’Angelo il primo e, come reporter di “Life”, per un servizio su Pagliacci, Cremonini, D’Assia, Brown ed altri pittori foriani nativi o d’adozione il secondo. Anche Capote venne ad Ischia per un reportage su Forio e i suoi artisti; con lui ed altri amici era Tennessee Williams, che approfittò della lunga vacanza ischitana per scrivere “Summer Crossing”, il suo secondo romanzo. Hans Werner Henze, invece, terminò durante i suoi lunghi soggiorni foriani l’opera che lo avrebbe imposto al mondo, “Il re Cervo”. Il maestro s’accompagnava spesso ad Ingeborg Bachmann, sua musa ispiratrice, autrice di molti suoi libretti e d’una bellissima poesia su Ischia. Intorno ad Auden e Bargheer seduti ad un tavolino del “Bar Internazionale” di Maria Senese a bere del vino, gravitava, ormai, tutto ciò che di culturalmente rilevante c’era a Forio o vi arrivava per andar via, tornarci o restarci per sempre. «Chissà se nei campi elisi la furba Maria non avrà organizzato, con l’aiuto di Tonino, un posto di mescita su un prato di pallidi asfodeli, al quale convengono Eduardo Bargheer e tanti vecchi foriani per parlare un po’ di noi tre all’insegna della vecchia Forio». Michele Longobardo si chiese, tracciando questo suo interrogativo sul bagnasciuga in un’assolata “Notte Bianca” dell’agosto foriano. Alcuni di noi raccolsero quella domanda, prima che fosse aggredita dall’onda e decisero di prodigarsi per immortalare quell’epoca in cui si tornava ad Ischia. Si tornava per respirare ancora una volta quell’irresistibile soffio di luce.

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